2 novembre 1975

Correvo nel crepuscolo fangoso,
dietro a scali sconvolti, a mute
impalcature, tra rioni bagnati
nell'odore del ferro, degli stracci
riscaldati, che dentro una crosta
di polvere, tra casupole di latta
e scoli, inalzavano pareti
recenti e ormai scrostate, contro un fondo
di stinta metropoli.

Sull'asfalto
scalzato, tra i peli di un'erba acre
di escrementi e spianate
nere di fango - che la pioggia scavava
in infetti tepori - le dirotte
file di ciclisti, dei rantolanti
camion di legname, si sperdevano
di tanto in tanto, in centri di sobborghi
dove già qualche bar aveva cerchi
di bianchi lumi, e sotto la liscia
parete di una chiesa si stendevano,
viziosi, i giovani.

Intorno ai grattacieli
popolari, già vecchi, i marci orti
e le fabbriche irte di gru ferme
stagnavano in un febbrile silenzio;
ma un po' fuori dal centro rischiarato,
al fianco di quel silenzio, una strada
blu d'asfalto pareva tutta immersa
in una vita immemore ed intensa
quanto antica. Benché radi, brillavano
i fanali d'una stridula luce,
e le finestre ancora aperte erano
bianche di panni stesi, palpitanti
di voci interne. Alle soglie sedute
stavano le vecchie donne, e limpidi
nelle tute o nei calzoncini quasi
di festa, scherzavano i ragazzi,
ma abbracciati fra loro, con compagne
di loro più precoci.

Tutto era umano,
in quella strada, e gli uomini vi stavano
aggrappati, dai vani al marciapiede,
coi loro stracci, le loro luci...


Sembrava che fino a dentro l'intima
e miserabile sua abitazione, l'uomo fosse
solo accampato, come un'altra razza,
e attaccato a questo suo rione
dentro il vespro unto e polveroso,
non fosse Stato il suo, ma confusa
sosta.

E chi attraversasse quella strada,
spoglio dell'innocente necessità,
perso dai secoli cristiani
che in quella gente si erano persi,
non fosse che un estraneo.

Pier Paolo Pasolini da: "Poesie inedite" 1951-53

capri espiatori

La rivolta delle banlieue cosa c'entra con l'architettura, chi è responsabile di cosa? Spesso ci si nasconde dietro al problema addossando tutte le cause allo spazio pensato dagli architetti per poi riutilizzare sempre l'architettura per promettere soluzioni immediate. Ma forse bisognerebbe pensare che la gestione di un territorio non si fa solo su carta e tramite un unico strumento e che le periferie non sono un prodotto di un'unica circonstanza.

Le violenze urbane francesi, con la cosiddetta “rivolta delle banlieue” di novembre 2005, hanno fatto risalire in superficie l’enorme problema dell’integrazione e dell’esclusione sociale. Da più parti sono stati azzardati molti colpevoli e capri espiatori e l’architettura ancora una volta si è ritrovata ad essere una delle cause principali di un malessere irreversibile. Sentiamo ancora la eco delle voci del teatro dell’opinionista che ha visto succedere politici, sociologi, economisti, filosofi e editorialisti vari, intenti a cercare di dare una visione illuminante dell’attualità, allo scopo di confortare lo stupore ipocrita della scoperta improvvisa di una situazione sociale drammatica. Nella maggior parte dei casi si è evitato di operare una critica che vada più lontano di semplice accuse reciproche e coinvolga tutti senza distinzione di ruolo.

In realtà, gli episodi di rivolta francesi sono parte integrante di un discorso molto complesso che ha le sue radici in politiche decennali di gestione del territorio, e che non sono affatto limitate alla Francia e non riguardano solo gli architetti, sociologi, economisti e politici. Si tratta di un ampio discorso di denuncia che non smette di esistere e rinnovarsi e che il potere mediatico è stato capace di recuperare, masticandolo cinicamente per i suoi propri bisogni.

Ciò a cui si assiste nelle periferie delle grandi città occidentali è il risultato inevitabile di un processo di stabilizzazione politica e sociale di una società di mercato, dell’iperconsumo e della produzione continua di un conflitto territoriale ed identitario che la città contemporanea non è più in grado di canalizzare. A Parigi, come a Barcellona o Milano, l’esclusione sociale è facilmente assimilabile all’esclusione urbana (a tal punto che è difficile intravedere quale delle due possa generare l’altra) la quale è strumentale ad un’idea di città contemporanea dove lo spazio pubblico cede il posto al consumo privato. Una città che appartiene a pochi, che hanno il privilegio di scegliere dove abitare, come spostarsi, a quale servizio accedere e che è composta da moltissimi che al contrario subiscono impotenti un’inaccessibilità fisica e sociale aggravata dal contrasto violento tra l’inesistente possibilità di consumare e l’enorme desiderio del consumo eletto oramai a bisogno vitale.

Il mito della grande città che libera l’uomo da qualsiasi costrizione sociale, che offre ogni giorno immense possibilità d’evoluzione e integrazione è crollato inesorabilmente con il passaggio dalla città sociale del secolo scorso (che altri definiscono “città del welfare”, figlia di una impostazione keynesiana) alla città della competizione, città che è bene di consumo nauseante, da usare e sfruttare.

E se la struttura di una città è strettamente legata alla struttura sociale, le cause principali di tale deriva non vanno cercate semplicemente nell’architettura o nella gestione urbana, ma nell’introduzione di nuovi modelli di lavoro che portano ad una conseguente riconversione delle attività classiche, alla destabilizzazione e alla frammentazione sociale causate da un abbandono del concetto di stato sociale inteso come diritto di base e non come beneficenza, dalla competizione sregolata e dalla precarietà lavorativa. Tutti elementi che non possono rispondere in modo efficace alle domande pressanti che la nostra realtà sociale ci pone: mutua solidarietà - accoglienza - partecipazione alle scelte cittadine - diritto al lavoro - alloggio, solo per citarne alcune.

L’architettura o l’urbanistica entrano in questo contesto senza nessuna colpa diretta, ma con una grande responsabilità negativa, cioè di assecondare una situazione di fatto evidentemente “anti-sociale”. É partendo da questa analisi che si può capire in che modo la rivolta delle periferie francesi sia legata ad una ghettizzazione spaziale oltre che sociale e in che modo l’architetto urbanista non sia l’unico protagonista di una situazione talmente esplosiva.

Per ritornare agli episodi di rivolta urbana che hanno spaventato la middle-class europea e per comprendere fin dove una politica della casa e l’architettura possano essere responsabili di una situazione del genere, è bene ripercorrere in maniera sintetica l’evolversi del problema casa in Francia. Anzitutto va ripetuto che gli avvenimenti di attualità rappresentano un episodio per niente eccezionale, ma al contrario possono essere considerati addirittura banali da parte delle persone che da sempre sono interessate a questo problema, perché abitanti, lavoratori o semplici osservatori in stretto contatto con le realtà periferiche francesi. Si tratta in effetti di una situazione letteralmente esplosiva, che ciclicamente ritorna di interesse nazionale e che rappresenta ben più che dei semplici disordini pubblici. Per smontare l’incredulità borghese basti guardare l’incessante produzione culturale, in particolar modo in campo cinematografico e musicale, che proviene dalle banlieue, per rendersi conto che il problema è descritto ed urlato da tempo ma, assumendo sempre dei linguaggi strettamente legati alla dimensione sociale di provenienza (come può essere ad esempio la musica hip-hop), non ha mai fatto breccia altrove, facendosi al contrario oggetto di una stigmatizzazione ulteriore. Se si ascoltano delle semplici canzoni o si vede ad esempio una pellicola come “Wesh wesh”, si ha un’idea chiara e scottante della realtà di esclusione e spesso di repressione delle banlieue francesi. Un dato a riprova di tutto ciò: dall’inizio del 2005 al momento fatidico del 27 ottobre che ha fatto puntare i riflettori su Clichy-sous-Bois, ventimila autovetture erano già state bruciate in tutta la Francia, quindi la normale amministrazione di una situazione latente d’insurrezione. È semplice capire come la disoccupazione, la repressione, il sentimento d’ingiustizia, le ferite mai rimarginate del colonialismo possono essere il carburante col quale il fuoco s’appicca.

Ma è senza dubbio nella conseguente esclusione urbana che risiede uno dei motivi primari di questa collera. Negli ultimi dieci anni, c’è stato un ritiro graduale dello stato sociale, accompagnato da un rifiuto sistematico da parte dei comuni di costruire nuovi alloggi popolari nonostante una legge recente imponga un minimo di 20% sul proprio territorio. Si preferiscono pagare delle ammende piuttosto che costruire delle case popolari, delle nuove famigerate “cités” oramai estremamente stigmatizzate e collegate ad un’immagine troppo negativa. A questa situazione si aggiunge una politica diffusa di demolizione del vecchio parco immobiliare; di conseguenza gli alloggi si riducono, le liste di attesa aumentano e la situazione diventa sempre più esplosiva. Il sovrappopolamento è all’ordine del giorno così come le situazioni di degrado. Durante l’estate 2005 una serie di incendi disastrosi ha messo in luce questo drammatico problema e si è parlato senza vergogna di 350 squat insalubri nella sola Parigi e di più di mille edifici impraticabili e ad alto pericolo incendio. Tutto ciò mette in luce una crisi cronica della casa ed un’incapacità da parte delle istituzioni nel dare una risposta “umana” al problema.

Le uniche politiche sono state tutte rivolte a favorire la speculazione immobiliare, lasciando al libero corso del mercato la fluttuazione dei prezzi degli affitti con una conseguente omogeneizzazione sociale della città. Oggi ci sono nella sola regione parigina 330 mila domande di case popolari, cifra che vede superare il milione in tutta la Francia. È la prima volta che lo Stato francese abbandona in maniera così plateale il tema abitativo ed è anche per questo che la crisi della banlieue ha raggiunto dei livelli talmente critici.

Dalla fine del dopoguerra alla crisi petrolifera del 1971-73 in Francia si è costruito ad un ritmo elevatissimo di 500.000 alloggi popolari all’anno. All’epoca si doveva far fronte all’immigrazione di mano d’opera a buon mercato dalle ex-colonie, e si doveva ricostruire dopo la guerra. Si sono creati così i grandi quartieri periferici che presto accumularono tutti i problemi legati alla crisi economica, alla disoccupazione e più tardi ad una crisi di rappresentazione politica e sociale. Nel 1978 avviene la prima demolizione, e comincia così la stigmatizzazione dei luoghi attraverso la stigmatizzazione dello spazio e del territorio. Si pensa, come tuttora, di curare il “male” distruggendo l’oggetto e lo spazio senza vedere che il male è probabilmente altrove, è al centro e non in periferia.

Nel 1981 è la prima e vera rivolta, la cosiddetta “estate calda” durante la quale in una notte vengono bruciate 250 macchine. In seguito sarà organizzata una grande manifestazione-marcia da Marsiglia a Parigi per rivendicare un ascolto pubblico da parte delle istituzioni. Lo slogan era : “la Francia è come un motorino: per andare ha bisogno della miscela” ad indicare un riconoscimento pubblico dei figli e nipoti della popolazione immigrata. All’epoca il presidente socialista Mitterand fece molte promesse, dette il permesso di soggiorno a tutti i manifestanti e inaugurò una politica più attenta nei confronti delle periferie. In seguito fu istituito un Ministero della Casa e la lotta all’esclusione sociale fu incentrata sulla prevenzione scolastica, su aiuti economici come redditi d’inserimento e sperimentazioni sociali importanti. Ma tutto questo non è bastato.

Oggi che il Ministero alla Casa non esiste più e la repressione ha preso il posto della prevenzione, ci si rende conto che ancora molto non è stato fatto e che essenzialmente rimane irrisolto un problema di riconoscenza politica e sociale della periferia e dei suoi abitanti, figli dei figli degli immigrati. Nel dibattito, gli architetti sono stati presi spesso di mira, ma bisogna dire che in Francia è stato sperimentato davvero molto: ci sono degli esempi unici di alloggi popolari in cui l’architettura ha cercato di sperimentare nuove forme di inserimento e di aggregazione; più volte la partecipazione dell’abitante è stata “utilizzata”, si è lavorato molto sulle strutture di servizi, sui collegamenti, sui contrasti spaziali e l’eterogeneità dei volumi, sulla frammentazione del paesaggio e sullo sviluppo degli spazi pubblici.

È triste constatare come gli esempi più aperti, più flessibili e più innovativi siano stati poi oggetto delle critiche più spietate e dell’utilizzo più disastroso, fatto sta che oggi la richiesta più frequente da parte degli abitanti è l’inesistenza di spazi collettivi, di banchi o di percorsi che possano fare da rifugio a bande di giovani in cerca di uno spazio dove consumare la propria giornata.

L’utopia sociale è fallita nei “grands ensembles” francesi a causa di un’incapacità di rendersi conto che il problema della casa non può e non va regolato attraverso delle macro-operazioni statali. Il problema risiede nel fatto che lo Stato in quanto tale non può considerare la casa al di fuori di un numero, di una statistica, di una cifra invece che, come ci ricordava Giancarlo De Carlo nel 1948, la casa essendo intimamente legata all’uomo, ha una sua storia, una sua dimensione, una sua vita ogni volta diversa, varia e cangiante. L’architettura è responsabile nel momento in cui non permette all’uomo di proporsi nello spazio attraverso la propria abitazione. Le periferie francesi sono fallite anche per questo.

Ma come intervenire, una volta che il disastro è considerato irreversibile? La soluzione è nel ristabilire le condizioni affinché la città possa continuare a crearsi su sé stessa senza frammentarsi e omogeneizzarsi in quartieri uguali. Lasciare alle comunità lo sviluppo delle proprie capacità e soprattutto incitare il desiderio e la responsabilità diretta sulla dimensione collettiva, affinché una gestione dal basso possa crescere e auto-regolare problemi altrimenti non risolvibili.

La crisi della banlieue è un grido di dolore di una comunità che ha bisogno di riappropriarsi del proprio territorio, di rivendicare il diritto a gestire la propria esistenza al di fuori di qualsiasi immagine dominante e contro ogni nuovo razzismo, subdolo e “democratico”. L’architettura ha perso la sfida in passato con la periferia, ma è oggi che può ristabilire una nuova dimensione con l’uomo ed il suo spazio.

(ugo nocera)

la casa nel 1948


di Giancarlo De Carlo
Volontà - 1948 - n°10/11

Esiste in Italia un problema della casa, molto grave e urgente. Se ne è parlato a lungo subito dopo la guerra, quando le distruzioni belliche lo avevano acutizzato, ma abbastanza presto la discussione è stata travolta nello slogan politico della “ricostruzione” ed è rimasta vuota di tutti i suoi contenuti concreti.
(…)
Mancano oggi in Italia dodici milioni di vani (…) gli effetti di questa situazione sono disastrosi. L’affollamento annulla nella casa quella che è la sua principale funzione: la casa cessa di essere un ambiente nel quale si svolgono i rapporti umani più fecondi e diventa uno strumento pericoloso di ordine fisico e morale, un veicolo di malattia e di morte.
(…) Non è questo un fenomeno nuovo. La casa dei poveri di oggi non è molto diversa dalla casa degli schiavi egiziani del terzo secolo AC e dalla casa dei plebei romani dell’età imperiale. E’ un fenomeno che coincide con i momenti di crisi di volontà degli uomini e di esasperazione dell’autorità dello Stato.
L’affievolirsi del sentimento di autonomia degli uomini determina il sopravvento del principio di autorità. Decade l’impulso all’azione diretta, trionfa il meccanicismo e lo spirito burocratico, l’educazione diventa quantitativa, la cultura e l’arte si separano dalla vita, la vita si compartimenta e si assottiglia nei canali dell’astrazione. Di pari passo la città perde la sua qualità organica, la sua struttura si irrigidisce e si ossifica, si inizia il processo di stratificazione e concentrazione.
(…)
Tuttavia l’organizzazione sociale attuale, il capitalismo e lo Stato, non possono far nulla per risolvere questa crisi disperata. I nuovi materiali, i nuovi procedimenti costruttivi, non bastano da solifinchè persiste l’influenza disgregatrice del privilegio e dell’autorità.
Il capitalismo non costruisce, e non può costruire, case per le classi meno agiate perché un tale tipo di investimento non garantisce un buon reddito. (…) la conseguenze di questo fatto sono che il capitale privato trova investimento soltanto nelle case signorili e in tutti i tipi di costruzione ad alto reddito (palazzi per uffici, negozi di lusso, cinematografi, ecc…) e che i lavoratori, le classi meno agiate, sono costretti a trovare rifugio nelle case vecchie e anti igieniche, aumentando il sovraffollamento con tutte le conseguenze che ne derivano.
(…)
Lo Stato non fa, e non può fare, nulla per modificare questa situazione. Perché lo Stato è il rivestimento apparentemente concreto di un principio astratto di autorità e non può avere comunicazioni con l’unico principio veramente concreto, l’uomo, che egli considera e manipola come una pura astrazione. La casa è un organismo in direttao rapporto con l’uomo, è la sua continuazione nell’ambiente esterno, la sua affermazione nello spazio. Come tale la casa non può avere rapporti con lo Stato che riconosce l’uomo non come individualità ma come numero, frazione di un altro numero più grande.
(…) questi e tanti altri sono i risultati dell’intervento diretto dello Stato nel problema della casa, ma esiste un altro tipo di intervento i cui risultati non sono certo più efficaci, l’intervento indiretto tramite gli Istituti delle case popolari e le amministrazioni comunali (…). In ogni modo, anche quando l’arruginito meccanismo finanziario funziona, la burocrazia esecutiva è tanto costosa (…) da assorbire del tutto il vantaggio economico portato dal contributo statale. Il risultato è che la case popolari sono poche e costano troppo e quindi non sono alla portata di quelle categorie per le quali dovrebbero essere costruite. Per di più sono brutte e mal costruite perché non sono per gli uomini come sono in realtà, ma per gli uomini come li vede lo Stato. (…) Non risolvono né per quantità né per qualità il problema della casa, ma rappresentano il contributo massimo che lo Stato può dare.
(…)
Il problema della casa non può dunque essere risolto dal di fuori. E’ un problema degli uomini, che non può risolversi se non è affrontato direttamente, con un atto concreto di volontà, dagli uomini stessi.
Alcune vie di azione, già in parte sperimentate nel passato, tornano di attualità oggi. Conviene esaminarle per precisarne la validità ed i ilmiti: sono la costituzione di cooperative, l’occupazione illegale di edifici inabitati, lo sciopero per la casa.
La cooperativa è un mezzo efficace per produrre case a basso costo e per educare gli inquilini a forme di gestione collettiva. Occorre però che tutto il processo, dalla produzione al consumo, dalla costruzione all’abitazione, abbia un indirizzo e un fine preordinato.
Le cooperative di costruzione si costituiscono generalemente con lo scopo di dare lavoro ad un certo numero di lavoratori edili (…) Accade però che anche se costituiscono un esempio interessante di gestione collettive delle imprese e risolvono il problema del lavoro di molta gente, ben poco contribuiscono alla soluzione del problema casa (…).
Le cooperative di abitazione, molto meno frequenti delle prime, si costituiscono invece con lo scopo di dare casa ad un certo numero di inquilini che ne sono sprovvisti; comprano la casa al prezzo corrente di mercato e ne organizzano la gestione. Se si escludono i condomini, che non sono più cooperative ma pure forme di proprietà divisa, limitate ai ricchi e vuotate di qualsiasi contenuto sociale, tipi simili di cooperativa non possono costituirsi se non sono sostenuti da un forte aiuto finanziario esterno.
La soluzione non è certo quella, che in qualche località è già stata tentata, di organizzare una produzione diretta della casa da parte degli inquilini che dovranno abitarla, associati in cooperativa (…) La casa oggi è costosa anche perché prodotta con metodi tradizionali, non aggiornati alla moderna tecnica industriale. La produzione diretta da parte degli inquilini, generalmente non attrezzati alla costruzione e non dotati di attrezzatura adeguata, peggiorerebbe la qualità del prodotto e ne eleverebbe il costo.

La soluzione è quella di costituire cooperative di costruzione e cooperative di inquilini collegate da un comune programma d’azione e da un comune meccanismo finanziario, le prima destinate alla produzione con metodi razionali, le secondo all’uso e alla gestione. (…) Anche il finanziamento deve essere autonomo, risolto localmente secondo le circostanze, basandosi fin dove è possibile sul mutuo appoggio dei membri che appartengono alla collettività - contributi in denaro, in ore di lavoro, in prodotti da trasformare in denaro, ecc…- esigendo sovvenzioni da chi ha in mano le ricchezze sociali , impegnando i Comuni a cedere gratuitamente o a basso costo le aree comunali e i materiali da costruzione.

Un'altra via di azione diretta è l’occupazione illegale di edifici inabitati. L’esempio più importante lo si è avuto in Inghilterra subito dopo la guerra del 1914-18 e di nuovo dopo l’ultima, con i movimenti degli squatters; anzi, fu proprio da questi movimenti che il fenomeno prese il nome generico di squatterismo.
Lo squatterismo in realtà consiste non soltanto nell’invasione di edifici inabitati, o di edifici non addetti all’abitazione ma abitabili, ma anche nel rifiuto sistematico e organizzato di accettare gli ordini di sfratto emessi dai proprietari, che è anch’esso una forma di occupazione illegale.
Anche in Italia, subito dopo la guerra, si ebbero fenomnei abbastanza diffusi di squatterismo. (…)

Lo sciopero per la casa è ancora una via di azione diretta, è anzi, in un certo senso, il complemento e l’estrinsecazione politica delle altre di cui si è parlato. E’ una via poco sperimentata e povera di precedenti, e forse per questo, ritenuta inattuale. Ma si deve riflettere che anche gli alimenti, il vestiario, il combustibile per il riscaldamento, si pagno col salario, eppuri sono stati fatti scioperi per i viveri in natura, per le stoffe di abbigliamento, per la legna o il carbone, che hanno avuto grande successo proprio per il carattere concreto che assumevano localizzandosi su necessità precise. E si deve riflettere che inserire fra queste necessità anche quella della casa, non solo agita il problema economico generale ma mette in evidenza, portandola a coscienza di tutti, l’importanza che la casa ha nella vita dell’uomo.

Le vie di azione diretta esaminate, per quanto possano essere efficaci sul piano politico contingente, non conducono da sole ad una soluzione definitiva. Bisogna risalire alle radici del problema, scoprirne le cause essenziali e affrontarle con un’azione adeguata.

La casa non è solo muri, la casa è anche spazio, luce , sole , ambiente esterno. E non è solo questo: è anche scuole, assistenza sanitaria, spazi verdi, campi da gioco per i bambini, attrezzature per il riposo, lo svago e la cultura - cioè servizi - attrezzature per il lavoro, per la produzione, per gli scambi - cioè mezzi di vita econmica. La casa, insomma, si estende alla comunità. Ed è sana, è uno strumento efficace per l’uomo, se si inserisce armonicamente nella trama di una comunità sana.
La città contemporanea non soltanto non è una comunità sana, non è nemmeno una comunità; è un agglomerato fisico di edifici e di persone senza rapporti fra loro.
(…) la creazione di impenetrabili forme di potere, la perdita per gli uomini dell’attitudine ad esprimere forme di vita associata ed a rappresentarle in organismi adeguati.
Il risultato, oggi, in un corpo sociale devitalizzato e corrotto, è la città inefficiente.
(…)
Il peso economico di questo disagio funzionale è tanto grave da costringere l’organizzazione sociale attuale a intraprendere, per salvarsi, una vasta azione di pianificazione urbanistica.
Il piano urbanistico, così concepito come mezzo tecnico di salvezza dell’attuale struttura sociale, può ridursi ad un sotterfugio per arginare la realtà della vita che preme, ed è pericoloso. Ma concepito in modo diverso, come manifestazione di collaborazione collettiva, diventa lo sforzo di individuare le vere esigenze degli uomini e liberarle dagli ostacoli che si oppongono alla loro soluzione; il tentativo di riportare a un rapporto armonico i fatti naturali, economici, tecnici e i fatti umani.
(…) Per questo l’atteggiamneot che gli uomini assumeranno di fronte al fatto nuovo della pianificazione urbanistica è decisivo.
Può essere un atteggiamento di ostilità - il piano emana necessarimanete dall’autorità - (…). Può essere un atteggiamento di partecipazione - il piano è un’opportunità di svuotare i modi di vita attuali attraverso il mutamento delle loro rappresentazioni; è questo mutamento che crea i presupposti per il capovolgimento di tutta la struttura sociale.

(…) L’atteggiamento di ostilità, che significa in fondo “aspettare la rivoluzione per fare”, non tiene conto che la rivoluzione è una prerogativa di cervelli lucidi, non di gente affannata o malata che non può pensare al futuro perché è attanagliata ai suoi mali presenti; e non tiene conto che la rivoluzione si avvia cominciando a risolvere questi mali per creare le condizioni necessarie a un’aspirazione cosciente di libertà.
Le esigenze che richiedono una soluzione urgente sono infinite. (…) basta guardarsi intorno.
(…)
Nella città la stratificazione e la congestione hanno distrutto o deteriorato tutte le forme di vita individuale e collettiva e tute le loro rappresentazioni. La città è cresciuta come un agglomerato di edifici senza rapporti organici fra loro. Le scuole sono malsane e affollate, l’assistenza sanitaria insufficiente, il traffico disordinato e pericoloso, le zone verdi sono state assorbite dalla speculazione sui terreni.
Nella casa, gli uomini degradano ala livello delle bestie. Vivono senza luce, senza aria, senza sole, senza verde. Perdono i contatti con la natura e con i loro simili, dimenticano il valore della loro attitudine all’associazione e alla vita simbiotica, si trasformano in strumenti passivi pronti alla disciplina, all’obbedienza e alla guerra.
La pianificazione urbanistica può rovesciare questa situazione.
Se gli uomini avranno un coscienza profonda e capillare di tutti i loro problemi locali, se li porteranno già elaborati alla soluzione tecnica e vigileranno attivamente perché siano rispettati, la pianificazione urbanistica può diventare il più efficace strumento di azione diretta collettiva.

una lezione del 1948

alto grado di razionalità della civiltà contemporanea