capri espiatori

La rivolta delle banlieue cosa c'entra con l'architettura, chi è responsabile di cosa? Spesso ci si nasconde dietro al problema addossando tutte le cause allo spazio pensato dagli architetti per poi riutilizzare sempre l'architettura per promettere soluzioni immediate. Ma forse bisognerebbe pensare che la gestione di un territorio non si fa solo su carta e tramite un unico strumento e che le periferie non sono un prodotto di un'unica circonstanza.

Le violenze urbane francesi, con la cosiddetta “rivolta delle banlieue” di novembre 2005, hanno fatto risalire in superficie l’enorme problema dell’integrazione e dell’esclusione sociale. Da più parti sono stati azzardati molti colpevoli e capri espiatori e l’architettura ancora una volta si è ritrovata ad essere una delle cause principali di un malessere irreversibile. Sentiamo ancora la eco delle voci del teatro dell’opinionista che ha visto succedere politici, sociologi, economisti, filosofi e editorialisti vari, intenti a cercare di dare una visione illuminante dell’attualità, allo scopo di confortare lo stupore ipocrita della scoperta improvvisa di una situazione sociale drammatica. Nella maggior parte dei casi si è evitato di operare una critica che vada più lontano di semplice accuse reciproche e coinvolga tutti senza distinzione di ruolo.

In realtà, gli episodi di rivolta francesi sono parte integrante di un discorso molto complesso che ha le sue radici in politiche decennali di gestione del territorio, e che non sono affatto limitate alla Francia e non riguardano solo gli architetti, sociologi, economisti e politici. Si tratta di un ampio discorso di denuncia che non smette di esistere e rinnovarsi e che il potere mediatico è stato capace di recuperare, masticandolo cinicamente per i suoi propri bisogni.

Ciò a cui si assiste nelle periferie delle grandi città occidentali è il risultato inevitabile di un processo di stabilizzazione politica e sociale di una società di mercato, dell’iperconsumo e della produzione continua di un conflitto territoriale ed identitario che la città contemporanea non è più in grado di canalizzare. A Parigi, come a Barcellona o Milano, l’esclusione sociale è facilmente assimilabile all’esclusione urbana (a tal punto che è difficile intravedere quale delle due possa generare l’altra) la quale è strumentale ad un’idea di città contemporanea dove lo spazio pubblico cede il posto al consumo privato. Una città che appartiene a pochi, che hanno il privilegio di scegliere dove abitare, come spostarsi, a quale servizio accedere e che è composta da moltissimi che al contrario subiscono impotenti un’inaccessibilità fisica e sociale aggravata dal contrasto violento tra l’inesistente possibilità di consumare e l’enorme desiderio del consumo eletto oramai a bisogno vitale.

Il mito della grande città che libera l’uomo da qualsiasi costrizione sociale, che offre ogni giorno immense possibilità d’evoluzione e integrazione è crollato inesorabilmente con il passaggio dalla città sociale del secolo scorso (che altri definiscono “città del welfare”, figlia di una impostazione keynesiana) alla città della competizione, città che è bene di consumo nauseante, da usare e sfruttare.

E se la struttura di una città è strettamente legata alla struttura sociale, le cause principali di tale deriva non vanno cercate semplicemente nell’architettura o nella gestione urbana, ma nell’introduzione di nuovi modelli di lavoro che portano ad una conseguente riconversione delle attività classiche, alla destabilizzazione e alla frammentazione sociale causate da un abbandono del concetto di stato sociale inteso come diritto di base e non come beneficenza, dalla competizione sregolata e dalla precarietà lavorativa. Tutti elementi che non possono rispondere in modo efficace alle domande pressanti che la nostra realtà sociale ci pone: mutua solidarietà - accoglienza - partecipazione alle scelte cittadine - diritto al lavoro - alloggio, solo per citarne alcune.

L’architettura o l’urbanistica entrano in questo contesto senza nessuna colpa diretta, ma con una grande responsabilità negativa, cioè di assecondare una situazione di fatto evidentemente “anti-sociale”. É partendo da questa analisi che si può capire in che modo la rivolta delle periferie francesi sia legata ad una ghettizzazione spaziale oltre che sociale e in che modo l’architetto urbanista non sia l’unico protagonista di una situazione talmente esplosiva.

Per ritornare agli episodi di rivolta urbana che hanno spaventato la middle-class europea e per comprendere fin dove una politica della casa e l’architettura possano essere responsabili di una situazione del genere, è bene ripercorrere in maniera sintetica l’evolversi del problema casa in Francia. Anzitutto va ripetuto che gli avvenimenti di attualità rappresentano un episodio per niente eccezionale, ma al contrario possono essere considerati addirittura banali da parte delle persone che da sempre sono interessate a questo problema, perché abitanti, lavoratori o semplici osservatori in stretto contatto con le realtà periferiche francesi. Si tratta in effetti di una situazione letteralmente esplosiva, che ciclicamente ritorna di interesse nazionale e che rappresenta ben più che dei semplici disordini pubblici. Per smontare l’incredulità borghese basti guardare l’incessante produzione culturale, in particolar modo in campo cinematografico e musicale, che proviene dalle banlieue, per rendersi conto che il problema è descritto ed urlato da tempo ma, assumendo sempre dei linguaggi strettamente legati alla dimensione sociale di provenienza (come può essere ad esempio la musica hip-hop), non ha mai fatto breccia altrove, facendosi al contrario oggetto di una stigmatizzazione ulteriore. Se si ascoltano delle semplici canzoni o si vede ad esempio una pellicola come “Wesh wesh”, si ha un’idea chiara e scottante della realtà di esclusione e spesso di repressione delle banlieue francesi. Un dato a riprova di tutto ciò: dall’inizio del 2005 al momento fatidico del 27 ottobre che ha fatto puntare i riflettori su Clichy-sous-Bois, ventimila autovetture erano già state bruciate in tutta la Francia, quindi la normale amministrazione di una situazione latente d’insurrezione. È semplice capire come la disoccupazione, la repressione, il sentimento d’ingiustizia, le ferite mai rimarginate del colonialismo possono essere il carburante col quale il fuoco s’appicca.

Ma è senza dubbio nella conseguente esclusione urbana che risiede uno dei motivi primari di questa collera. Negli ultimi dieci anni, c’è stato un ritiro graduale dello stato sociale, accompagnato da un rifiuto sistematico da parte dei comuni di costruire nuovi alloggi popolari nonostante una legge recente imponga un minimo di 20% sul proprio territorio. Si preferiscono pagare delle ammende piuttosto che costruire delle case popolari, delle nuove famigerate “cités” oramai estremamente stigmatizzate e collegate ad un’immagine troppo negativa. A questa situazione si aggiunge una politica diffusa di demolizione del vecchio parco immobiliare; di conseguenza gli alloggi si riducono, le liste di attesa aumentano e la situazione diventa sempre più esplosiva. Il sovrappopolamento è all’ordine del giorno così come le situazioni di degrado. Durante l’estate 2005 una serie di incendi disastrosi ha messo in luce questo drammatico problema e si è parlato senza vergogna di 350 squat insalubri nella sola Parigi e di più di mille edifici impraticabili e ad alto pericolo incendio. Tutto ciò mette in luce una crisi cronica della casa ed un’incapacità da parte delle istituzioni nel dare una risposta “umana” al problema.

Le uniche politiche sono state tutte rivolte a favorire la speculazione immobiliare, lasciando al libero corso del mercato la fluttuazione dei prezzi degli affitti con una conseguente omogeneizzazione sociale della città. Oggi ci sono nella sola regione parigina 330 mila domande di case popolari, cifra che vede superare il milione in tutta la Francia. È la prima volta che lo Stato francese abbandona in maniera così plateale il tema abitativo ed è anche per questo che la crisi della banlieue ha raggiunto dei livelli talmente critici.

Dalla fine del dopoguerra alla crisi petrolifera del 1971-73 in Francia si è costruito ad un ritmo elevatissimo di 500.000 alloggi popolari all’anno. All’epoca si doveva far fronte all’immigrazione di mano d’opera a buon mercato dalle ex-colonie, e si doveva ricostruire dopo la guerra. Si sono creati così i grandi quartieri periferici che presto accumularono tutti i problemi legati alla crisi economica, alla disoccupazione e più tardi ad una crisi di rappresentazione politica e sociale. Nel 1978 avviene la prima demolizione, e comincia così la stigmatizzazione dei luoghi attraverso la stigmatizzazione dello spazio e del territorio. Si pensa, come tuttora, di curare il “male” distruggendo l’oggetto e lo spazio senza vedere che il male è probabilmente altrove, è al centro e non in periferia.

Nel 1981 è la prima e vera rivolta, la cosiddetta “estate calda” durante la quale in una notte vengono bruciate 250 macchine. In seguito sarà organizzata una grande manifestazione-marcia da Marsiglia a Parigi per rivendicare un ascolto pubblico da parte delle istituzioni. Lo slogan era : “la Francia è come un motorino: per andare ha bisogno della miscela” ad indicare un riconoscimento pubblico dei figli e nipoti della popolazione immigrata. All’epoca il presidente socialista Mitterand fece molte promesse, dette il permesso di soggiorno a tutti i manifestanti e inaugurò una politica più attenta nei confronti delle periferie. In seguito fu istituito un Ministero della Casa e la lotta all’esclusione sociale fu incentrata sulla prevenzione scolastica, su aiuti economici come redditi d’inserimento e sperimentazioni sociali importanti. Ma tutto questo non è bastato.

Oggi che il Ministero alla Casa non esiste più e la repressione ha preso il posto della prevenzione, ci si rende conto che ancora molto non è stato fatto e che essenzialmente rimane irrisolto un problema di riconoscenza politica e sociale della periferia e dei suoi abitanti, figli dei figli degli immigrati. Nel dibattito, gli architetti sono stati presi spesso di mira, ma bisogna dire che in Francia è stato sperimentato davvero molto: ci sono degli esempi unici di alloggi popolari in cui l’architettura ha cercato di sperimentare nuove forme di inserimento e di aggregazione; più volte la partecipazione dell’abitante è stata “utilizzata”, si è lavorato molto sulle strutture di servizi, sui collegamenti, sui contrasti spaziali e l’eterogeneità dei volumi, sulla frammentazione del paesaggio e sullo sviluppo degli spazi pubblici.

È triste constatare come gli esempi più aperti, più flessibili e più innovativi siano stati poi oggetto delle critiche più spietate e dell’utilizzo più disastroso, fatto sta che oggi la richiesta più frequente da parte degli abitanti è l’inesistenza di spazi collettivi, di banchi o di percorsi che possano fare da rifugio a bande di giovani in cerca di uno spazio dove consumare la propria giornata.

L’utopia sociale è fallita nei “grands ensembles” francesi a causa di un’incapacità di rendersi conto che il problema della casa non può e non va regolato attraverso delle macro-operazioni statali. Il problema risiede nel fatto che lo Stato in quanto tale non può considerare la casa al di fuori di un numero, di una statistica, di una cifra invece che, come ci ricordava Giancarlo De Carlo nel 1948, la casa essendo intimamente legata all’uomo, ha una sua storia, una sua dimensione, una sua vita ogni volta diversa, varia e cangiante. L’architettura è responsabile nel momento in cui non permette all’uomo di proporsi nello spazio attraverso la propria abitazione. Le periferie francesi sono fallite anche per questo.

Ma come intervenire, una volta che il disastro è considerato irreversibile? La soluzione è nel ristabilire le condizioni affinché la città possa continuare a crearsi su sé stessa senza frammentarsi e omogeneizzarsi in quartieri uguali. Lasciare alle comunità lo sviluppo delle proprie capacità e soprattutto incitare il desiderio e la responsabilità diretta sulla dimensione collettiva, affinché una gestione dal basso possa crescere e auto-regolare problemi altrimenti non risolvibili.

La crisi della banlieue è un grido di dolore di una comunità che ha bisogno di riappropriarsi del proprio territorio, di rivendicare il diritto a gestire la propria esistenza al di fuori di qualsiasi immagine dominante e contro ogni nuovo razzismo, subdolo e “democratico”. L’architettura ha perso la sfida in passato con la periferia, ma è oggi che può ristabilire una nuova dimensione con l’uomo ed il suo spazio.

(ugo nocera)